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Parola agli insegnanti

Oreste Brondo: passione e sperimentazione

Tempo di lettura stimato: 5 minuti
12 Marzo 2025

12 Marzo 2025

Dove insegna? In quale contesto si trova la sua scuola?

Insegno nella scuola elementare Falcone–Borsellino, una piccola scuola nel Quartiere Italia. Nelle mie due classi, su un totale di ventisette bambini, soltanto due sono italiani. Gli altri vengono da ogni parte del mondo, o meglio: molti sono nati in Italia, ma da genitori di origini straniere. Negli ultimi anni, le famiglie italiane del quartiere, a fronte di questo alto numero di stranieri, hanno deciso di mandare i figli in altri istituti.

Da quanto tempo insegna? E quali materie?

Ormai sono ventiquattro anni. I primi undici ho lavorato in una scuola paritaria di Napoli. Poi sono entrato nella scuola statale e mi sono trasferito qui in Umbria. Attualmente insegno matematica, scienze e tecnologia, ma il mio lavoro non si limita all’insegnamento curricolare: per molti anni ho tenuto laboratori di teatro, per questo, quando nella scuola organizzano sessioni di lettura ad alta voce, chiamano me.

In questa scuola cerco di realizzare una didattica senza un preciso limite delle discipline: gli insegnanti sono particolarmente selezionati e motivati, per cui riusciamo ad avere una vera apertura e comunicazione tra tutte le classi.

Come è arrivato all’insegnamento?

Ho lavorato per anni in una fabbrica a Palermo, sono un perito tecnico elettronico. Grazie a mia nonna ho coltivato da sempre una grande passione per la lettura. Mi piaceva anche la fotografia e ho iniziato a fare volontariato insegnandola ai bambini di un difficile quartiere palermitano. Lì è nato il mio profondo rapporto con i più piccoli.

Poi mi sono ritrovato a lavorare con persone fantastiche, tra cui Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, e ho cominciato a fare fotografie per le riviste che si battevano contro la mafia. Quando Borsellino è stato ucciso, ho deciso di diventare maestro perché era l’unico contributo politico che mi sentivo di poter dare. Mi sono quindi messo a studiare per fare gli esami da esterno, mi sono diplomato e ho fatto il concorso per entrare nella scuola. Sono felice di aver fatto questa scelta, perché con i bimbi sto molto meglio che con gli adulti.

Quale didattica utilizza in classe?

Applico il metodo scientifico: trasformo la lezione in un momento di sperimentazione durante il quale i bambini fanno esperimenti e poi cercano di capire cosa indicano i risultati ottenuti, per individuare le leggi che regolano i fenomeni: il pendolo, il piano inclinato e la caduta dei corpi, le leve. Possiamo lavorare sia in piccoli gruppi sia tutti insieme: si esegue l’esperimento, si annotano le scoperte e poi ci si riunisce e si riprova l’esperimento per comparare le scoperte, mettendo in discussione tutto il processo. Abbiamo lavorato sulla meteorologia e per un anno intero sulle piante. E, ancora, sulle leggi del galleggiamento, con esperimenti effettuati con una vasca portata nell’aula. Alla fine di tutto il percorso emergono le leggi che spesso sono matematizzabili: partendo dagli appunti dei bambini e dalle loro intuizioni costruiamo un testo collettivo usando la LIM. Poi osserviamo il testo e verifichiamo se ci siano integrazioni da fare: il testo diventa quindi la base per organizzare una serie di conferenze che i bambini presentano, senza il minimo intervento da parte mia, nelle altre classi e nelle altre scuole, e perfino in una libreria indipendente della città.

In questi anni ha visto trasformazioni nella scuola?

Non molte. La maggior parte degli insegnanti che conosco lavora ancora ripetendo la lezione in modo frontale, tradizionale, indipendentemente dalle materie. Questo viene considerato il metodo, anche dai genitori. È capitato che un genitore abbia portato via suo figlio perché non gli piaceva il mio metodo finlandese. Io non sapevo nemmeno di usare il metodo finlandese. Anche un gruppo di insegnanti dissero che io insegnavo matematica in “maniera strana”. Io credo che proprio a causa del metodo tradizionale di insegnarla siamo tra gli ultimi in Europa per le competenze matematiche, perché l’idea che la matematica consista nell’imparare a memoria una serie di operazioni non ha senso. I bambini che lavorano con me sono felici, entrano in un mondo di curiosità e di esplorazione perché si appropriano degli strumenti logici ponendosi dei problemi: non sono io che spiego, ci arrivano loro ragionando. Sostanzialmente quello che fanno è lavorare sulla matematica che si trova nella realtà: trovano tecniche e approcci, non lavorano con un apprendimento forzato.

I bambini che lavorano con me sono felici, entrano in un mondo di curiosità e di esplorazione perché si appropriano degli strumenti logici ponendosi dei problemi: non sono io che spiego, ci arrivano loro ragionando.

La formazione oggi offre un supporto agli insegnanti?

Giuseppe Pontremoli ha raccontato in un articolo un aneddoto illuminante: un giorno ha seguito un corso di formazione in cui gli insegnanti erano tutti seduti sui banchi mentre veniva loro spiegato quanto fosse importante il movimento del corpo. Ecco qui la contraddizione: perché me lo spieghi e non me lo fai provare?

La formazione prevalentemente frontale non permette agli insegnanti di mettersi in discussione, che è esattamente il nucleo centrale dell’insegnamento: tu devi essere capace di metterti in gioco sulla base della situazione concreta che ti trovi ad affrontare. Io arrivo in classe con un’idea magnifica, con il lavoro già preparato, poi un bambino alza la mano e propone qualcosa di inaspettato e geniale, un’idea migliore della mia. Io a quel punto cambio la lezione, mi adeguo. In questo modo i bambini imparano a credere in se stessi e nelle proprie possibilità

Quale ritiene che sia l’aspetto più interessante del suo lavoro?

Io sento il bisogno continuo di allargare i miei orizzonti: guardo film, leggo libri, vado a teatro e incontro persone perché voglio che tutto poi ritorni in classe. Noi insegnanti non siamo istruttori ma ponti, e un ponte per essere credibile deve avere una buona manutenzione, che in questo caso è cultura, conoscenza, esperienza. È questo che mi fa amare così tanto la lettura, perché ogni volta che leggo qualcosa di bello sento che mi aiuta a migliorare il modo in cui io sto in classe con i bambini.

Quali sono invece le difficoltà che incontra?

È un lavoro pieno di imprevisti che dipendono in gran parte da quello che succede a casa, nelle famiglie dei bambini. Secondo me il problema fondamentale è la loro situazione emotiva, che a volte impedisce loro di avere un sereno percorso di apprendimento e di partecipazione, per questo cerco sempre di creare un contesto di ascolto che li possa mettere a loro agio. Anche se non esiste un metodo che si possa applicare con tutti, nessun bambino è uguale a un altro.

Quali sono gli ostacoli a un buon insegnamento?

 

Sicuramente è la paura di affrontare contrasti con colleghi o con dirigenti che la pensano diversamente da te. Quando sono arrivato nella mia scuola c’era una coordinatrice che aveva creato un rigido sistema di potere in cui non era concesso spazio per esprimere il proprio pensiero. Non esistevano momenti di discussione che permettessero di condividere dubbi e idee. Per fare un buon lavoro dev’esserci cooperazione e una ricerca comune per trovare insieme gli strumenti migliori.

Inoltre esiste il problema della rigida osservanza del programma: sembra che l’unica cosa che interessa molti insegnanti sia questo. C’è poco coraggio ad aprirsi, a mettersi in gioco e rischiare. C’è una chiusura difensiva perché nel momento stesso in cui dai la parola ai bambini quelli ti fanno delle domande alle quali a volte è difficile rispondere. E allora l’atteggiamento giusto sarebbe: “Non te lo so dire, però proviamo a vedere se riusciamo a scoprirlo”. Questo penso sia lo spirito corretto: fare in modo che la conoscenza sia al servizio del raggiungimento di altre conoscenze, in modo che il bambino sviluppi in sé capacità che gli permettano di imparare in modo autonomo.

Crede che un insegnante possa fare la differenza per i suoi studenti?

A Napoli ho incontrato un ragazzo che mi ha riconosciuto e abbracciato. Mi ha detto che mi aveva dedicato la tesi di astronomia. Ne ho incontrato un altro che era stato un mio alunno, geniale ma del tutto indisciplinato: è diventato un ingegnere aerospaziale. Quindi la risposta è sì. Al di là di questi casi eccezionali, mi sono sempre arrivate testimonianze da bambini ed ex bambini con i quali ho fatto un percorso: quello che vedo, che sento in maniera quasi tangibile, è che loro amano moltissimo quello che abbiamo fatto insieme.

di Emilia Bandel

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