In quale scuola insegna?
A quali trasformazioni ha assistito nel tempo?
Qual è la sua formazione?
Dopo gli studi universitari, un master all’estero e vent’anni di ufficio stampa, sono approdata all’insegnamento con un bagaglio esistenziale e professionale che ho potuto mettere a frutto in classe, e che viene aggiornato ogni anno con la formazione continua richiesta a ogni insegnante.
I corsi a disposizione sono molto vari dal punto di vista dei contenuti, ma anche della qualità e della serietà. Fra i più interessanti, per me, uno sulla valutazione formativa, che mi ha suggerito alcune nuove pratiche da sperimentare in aula. Per esempio, quella di proporre verifiche di difficoltà diversa, contrassegnate con i colori delle piste da sci, lasciando che ogni ragazzo scelga quale percorrere con l’aiuto dell’insegnante che lo stimola a superare i suoi limiti: così la competizione è con se stesso, e non con i compagni.
Un altro corso di formazione utile che ho seguito verteva sulla progettazione e l’uso del gioco da tavolo a scuola, adattabile anche alle materie di studio. Così, per esempio, i protagonisti del Risorgimento possono diventare carte stile Pokémon, con punteggi variabili in base alle loro qualità: azione, astuzia, forza, velocità… Oppure l’Inferno di Dante si traduce in un gioco dell’oca, con attività, intoppi, prove da superare.
Detto questo, la didattica cambia molto in relazione agli studenti che ci si trova di fronte e al contesto cui appartengono: insegnare è un percorso che si fa insieme, una continua sperimentazione.
Credo anche che gli insegnanti si siedano in cattedra troppo spesso senza aver prima visto lavorare altri docenti, e dunque si trovino costretti a limitarsi alla propria esperienza di studenti o a teorie astratte. Anche nel proseguimento della carriera, non ci sono molte occasioni per vedere i colleghi in azione. Personalmente, ho trovato utilissime le poche volte che ho potuto farlo. Quindi, oltre ai corsi d’aggiornamento, sarei favorevole a ore di compresenza tra docenti nuovi e docenti più esperti.
Su quali aspetti didattici si concentra di più?
Nella sua scuola e nella sua esperienza viene realizzata sperimentazione nella didattica?
Sui metodi nuovi c’è molta letteratura e in alcune scuole una grande sperimentazione. Negli anni passati mi è capitato di provare la DADA (Didattiche per ambienti di apprendimento), il sistema per cui i professori stanno fermi nelle classi e sono i ragazzi a spostarsi. Un metodo mutuato dal mondo anglosassone che porta movimento in tutti i sensi, ma che, per essere applicato bene, richiederebbe investimenti importanti sugli spazi e sul personale, in modo da garantire il controllo dei momenti destrutturati.
Penso che la scuola di oggi dovrebbe comprendere più discipline pratiche, che coinvolgano la dimensione fisica, i ragazzi ne hanno veramente bisogno: teatro, ma anche costruzione di oggetti, cucito, danza. E, almeno fino all’età dell’obbligo, dovrebbe essere a tempo pieno. Dopo pranzo i nostri studenti dovrebbero rimanere, magari anche solo a riposare su un cuscino con un libro tra le mani. Oppure uscire dalla classe per andare alla scoperta della città, delle sue strade, dei suoi cinema, dei suoi musei.
Come può la scuola incidere sull’educazione e sul benessere di ragazze e ragazzi?
Il nostro ruolo di insegnanti è quello di far sbocciare dei cittadini: da questo punto di vista la scuola è un corpo politico e un laboratorio a cielo aperto, è qui che si diventa consapevoli dell’esistenza degli altri, è questo il primo vero luogo della mediazione e dunque della democrazia. Una democrazia “in carne e ossa”, che li accolga e li metta concretamente e serenamente al lavoro. Per una generazione i cui rapporti sono sempre più mediati dagli schermi, trovarsi tutti i giorni fisicamente insieme, anche con i propri corpi, diventa vitale. Questo è forse l’elemento di novità rispetto al passato.
Il nostro compito è quello di far stare bene i ragazzi, farli sentire a proprio agio, in un luogo sicuro dove imparare, sbagliare, crescere insieme agli altri. Un luogo dove approdare ogni mattina senza fatica.
Per una generazione i cui rapporti sono sempre più mediati dagli schermi, trovarsi tutti i giorni fisicamente insieme, anche con i propri corpi, diventa vitale.
Ci sono strumenti didattici particolarmente adatti a contrastare il disagio dei ragazzi?
Ha incontrato problemi inattesi nel suo lavoro?
Spesso ciò che si fa per includere finisce per stigmatizzare o escludere proprio la persona che volevamo proteggere. Alcuni anni fa insegnavo in una scuola dove una cooperativa sociale aveva vinto un bando per “l’inclusione”. Ci chiesero di segnalare i ragazzi che avevano “più bisogno”, in parole povere i “casi disperati”. Li avrebbero portati a vedere delle mostre a Palazzo Reale, a realizzare un programma radiofonico. Avevo un gruppo di ragazzine molto “popolari”, ma che ritenevo avessero davvero necessità di stimoli culturali, e così proposi loro quell’esperienza. Tornarono da me in lacrime, era stata una terribile umiliazione, mi dissero, trovarsi con i peggiori della scuola e con le educatrici che le trattavano “da disabili”. Si era creato a nostra insaputa un piccolo ghetto di persone da integrare.
Qualche anno dopo mi ricapitò una situazione analoga con il Covid, di nuovo ci chiesero di segnalare per un mese di scuola in più a giugno i famigerati “casi disperati”. Mi impuntai per avere tutta la classe e non fu semplice, “i fondi sono solo per gli alunni problematici, non possiamo spenderli per i ragazzi già bravi”. Ma la spuntai e fu un’esperienza importante per ognuno di loro.
L’inclusione si fa includendo tutti e considerando tutti gli studenti “bravi” (o, se preferiamo, tutti “casi disperati”), rimuovendo, almeno per quanto riguarda l’istruzione, gli ostacoli che limitano l’eguaglianza dei nostri giovani cittadini.
Crede che un insegnante possa fare la differenza per i suoi studenti?
Sì, lo credo, anche se non avrai mai la conferma di essere stata, per il singolo ragazzo, proprio quell’insegnante che ha fatto la differenza. Magari invece lo è stata la tua collega, però sì, penso che ci si debba almeno provare. Soprattutto con gli studenti che ne possono avere più bisogno. E per farlo ci vuole passione, il tuo lavoro ti deve restituire un senso.
Di questo mestiere, amo il fatto di essere immersa nella realtà, di dovermi inventare giorno per giorno la strada migliore per arrivare a dialogare con i miei alunni e di cercare quotidianamente di annodare quegli infiniti fili che legano il passato al futuro. Perché loro sono il futuro. E poi insegnare significa anche imparare, ed è molto divertente, benché, anche fisicamente, faticoso.
Infine, aspetto più importante di tutti, ho la convinzione che insegnare significhi offrire strumenti per realizzare i propri desideri. Una sorta di bacchetta magica, magari imperfetta o solo abbozzata, che però può diventare molto potente.